Data astrale… Già solo perché mi ricordo questo, merito di essere qui. Oddio…sono in buona compagnia, sono tanti i fans. Ma io non lo ricordo come fan, lo ricordo per aver visto gli episodi in diretta. L’età è stato uno dei motivi per il quale sono stati ben contenti di accogliermi come volontaria. La Terra va, con cautela e senza dare troppo nell’occhio, ringiovanita. La mia generazione è già al limite del peso sociale, compresa com’è la mia età tra la fine della possibilità riproduttiva e quella della capacità lavorativa in calo. Non da buttare ancora, ma se spontaneamente… Dunque, quando mi sono offerta volontaria per questo viaggio, c’era un bel sorriso ad accogliermi. Una calorosa stretta di mano. Un pranzo offerto e persino una foto sul giornale. Certo, sono stata un esempio. “Colei che spontaneamente precede il declino fisico, sacrificando qualche suo anno per il bene dell’umanità“. Da crederci, no? Mi sistemo meglio gli occhiali protettivi. Protettivi e progressivi nel mio caso. Piccola deroga e piccolo lusso che ho potuto chiedere proprio perché ero volontaria. Volontaria e sola. Sì, perché sono partita in solitaria, un’altra cosa che mi ha fatto salire agli onori della cronaca. Quella in solitaria era infatti una delle missioni più temute. Anche se finivano inevitabilmente con la morte, morire da soli non piace a nessuno e quindi faticavano a far salire qualcuno su…
Non ho ancora parlato del mezzo. Fantastico mezzo, inimmaginabile fino a qualche anno fa il potersi muovere in una specie di sfera con microgravità interna, veloce ma anche da guidare a mano… In effetti, ripensandoci, mi sembrava più di essere in un piccolo dirigibile, molto veloce e capace di andare nello spazio, ma davvero strano nella sua commistione di antico e moderno. Quella manopola per esempio sembrava un vecchio rubinetto in ottone… Saranno mica andati a risparmio? In realtà non avrebbero avuto bisogno di fornirmi il meglio della tecnologia, visto il tipo di missione… Vero anche che ora andava di moda quello stile. Ed io, tutto sommato, non ero certo stata inviata per le mie competenze tecniche. Per quanto ne potevo sapere magari erano gli ultimi ritrovati dell’ingegneria aerospaziale. Mi riassesto gli occhiali protettivi un’altra volta, più per nervosismo che perché stessero effettivamente scivolandomi via. Nervosismo. Ci poteva stare. Tutto scelto volontariamente e no, nessun pentimento. Finora. Dopo? Chissà, ormai il dado era tratto. Citazioni troppo antiche. Meritavo di essere lì in effetti.
Mi ritornano in mente, come tanti flash, i motivi che mi avevano portato a quella scelta così…non convenzionale, le cui intime motivazioni non avevo condiviso ovviamente. E dunque questo anticipare, piuttosto che la consueta ed inevitabile rassegnazione che prendeva tutti ad un certo momento, era stato visto da alcuni come un tradimento. Non avevo combattuto. Avevo rinnegato la lotta. Non mi ero nemmeno arresa, l’avevo scelto. La lotta di noi ultraquarantenni per poter sopravvivere in un mondo che, a spallate, ci faceva sentire poco desiderati già dai 35 anni, per obbligarci a soluzioni definitive appena superati i sessanta. Possibilmente senza arrivarci vivi oppure senza costringere nessuno a quella difficile posizione di doverci spingere quasi con la forza nello spazio per sfruttare la nostra esperienza nelle missioni spaziali. La Nuova Florida, il nuovo Portogallo. E ancora ragionavo con i parametri di tanti anni fa, nominando quelle che erano vecchie località dove i pensionati si andavano a riposare e a godere clima e tempo libero. Non c’era da stupirsi se la filosofia imperante fosse quella dell’hic et nunc. Carpe diem il motto più diffuso. Motto che non mi era congeniale…io cercavo di costruire. Una follia, giacché si presupponeva che il tempo per viverlo non ci sarebbe stato, una follia per me così bivalente. Ma mi era naturale. Ed ecco il motivo della mia…fuga. Fuga dal dolore, fuga dalla morte che sarebbe comunque arrivata forse anche per mia mano. Un altro carattere che mi distingueva dal resto dell’intera umanità. Ovviamente (per loro), una vita già destinata a finire presto, non prevedeva alcuna volontà di accorciarla. E quindi il numero dei suicidi era crollato. Contenta per loro che volevano vivere ogni minuto, io no. Non più. Non mi sembrava vero di aver trovato quella “onorevole” soluzione. Nessun senso di colpa, nessuno lasciato piangente o tormentato. Tutt’al più stupito. Ma tanto, man mano che l’età aumentava, i rapporti sociali si diradavano in modo quasi drastico. Chi aveva più voglia di innamorarsi arrivato ai 45 anni, ben sapendo che quell’amore avrebbe avuto stampigliata sopra una data di scadenza? I più romantici, ed anche i più coraggiosi a mio parere, sceglievano il Viaggio in comune. Sembrava una soluzione naturale per quegli amori che comunque sbocciavano loro malgrado. Partire insieme, morire insieme. Ma veder morire chi si ama non era certo un’impresa facile, almeno così la pensavo io. Perché quel viaggio era sì destinato a finire prima o poi con la morte, ma non era prevista come…condanna. Non era eutanasia. Non era esecuzione. No, i nostri legislatori, l’élite dei legislatori di quasi tutti i paesi del mondo, l’aveva pensata bene. Chi si sarebbe imbarcato su un viaggio con morte certa? Anche i meno facinorosi avrebbero lottato strenuamente.
Compiendo il Viaggio, era previsto che ci fosse la possibilità di sopravvivenza, possibilità, non la certezza. Si sa che le persone le freghi con le speranze, anche con le più remote. Bene, quel viaggio astrale conduceva la navetta verso un altro pianeta, un satellite in realtà, recentemente colonizzato. Colonizzato da pionieri partiti con molti infanti, quelli che costituivano ora la maggior parte degli adulti che lì si trovavano. Perché il Viaggio durava venti anni umani. Dai venti ai trenta in realtà, come veniva sostenuto dalle novelle agenzie di viaggio. Così si diceva sulla Terra. Sospettavo che i dati fossero alterati e la distanza in termini di anni fosse di molto superiore, visto che le comunicazioni provenivano quasi sempre da parte di quei neonati, ex neonati ovviamente, partiti all’inizio e dai loro discendenti. Di coloro che erano andati in pensione, non c’era praticamente nessuno. Eppure quei viaggi si promuovevano come “condivisione delle esperienze di una vita con le generazioni ex terrestri“. La vicinanza della definizione con extraterrestri mi faceva ridere, ma pareva solleticasse solo la mia di ironia. E quindi le persone partivano. Partivano pensando di arrivare ancora vivi e contavano sulle condizioni di vita e sulle tecnologie mediche sperimentali della nuova casa degli ex terrestri, di cui si faceva un gran parlare. Si vociferava che ci fosse la possibilità di rigenerare il corpo da precedenti patologie e anche che vi fossero trattamenti che allungavano la vita persino di cinquant’anni. E dunque i cinquantenni partivano, nella speranza di arrivare a 70 anni e poi di viversi ancora un altro mezzo secolo su quel pianeta. Bubbole, pensavo io. Non ce n’era nessuna prova. D’altra parte sulla Terra pareva esserci una strage di sessantenni. Tutte quelle malattie debellate da tempo, sembravano accanirsi in modo terribile sui cittadini meno giovani. E le cure mediche erano diventate così costose per tutti che, una volta finita la vita lavorativa, senza pensione (ormai definitivamente cancellata) e con la possibilità solo di vivere dei propri risparmi (nella maggior parte dei casi inesistenti) la scelta era tra il morire di fame o persino di infezioni dovute a semplici mal di denti e il Viaggio. “La speranza che fotteva” la chiamavo io. “Dai nuova vita alle tue esperienze” era invece il nome ufficiale. Appunto in pochi partivano in coppia e io pensavo che, a causa delle bugie che sicuramente ci erano state dette sulla durata del Viaggio stesso, veder morire senza neanche una parvenza di cure il proprio amato o la propria amata, non poterlo neanche seppellire ma doverlo lasciare a vagare nell’universo e continuare quel residuo di vita completamente da soli, fossero condizioni decisamente peggiori dell’affrontare il Viaggio in solitaria o in compagnia di estranei. Con i quali eventualmente sfogare gli istinti sessuali senza alcun coinvolgimento sentimentale. Volendo infatti si poteva scegliere di essere castrati sentimentalmente all’inizio del Viaggio, una scelta comunissima. Capite perché ritengo coraggiose le coppie che viaggiano insieme? I loro sentimenti se li portano con sé e si condannano a provare il dolore ed il lutto per intero. Io ero atipica. Il mio cuore lo avevo lasciato sulla Terra, insieme alle persone e alle circostanze che lo avevano infranto, ma non mi ero fatta castrare. Volevo vivere per intero il dolore col quale ero partita e morire preferibilmente prima di arrivare. Non mi ero neanche portata una quantità accettabile delle mie medicine per l’epilessia. Magari una crisi di grande male mi si sarebbe portata via. Anche per questo ero stata vista con sospetto da alcuni e con estremo sollievo dal Servizio Sanitario Mondiale, i cui funzionari erano stati ben contenti di non dover ricevere le solite contestazioni sulla quantità di medicine che i malati cronici chiedevano di portarsi dietro. Contate che una epilettica come me prende…prendeva per essere più precisa, qualcosa come 1100 mg di due tipi di medicine al giorno. Fate un po’ i conti per venti/trent’anni e pensate che chi è malato cronicamente cerca sempre di essere prudente e di portarsene di più ed avrete un’idea del tipo di battaglie (a volte anche legali) che si consumavano su questo tipo di questioni. Ma per alcuni che vincevano, ve ne erano molti che si arrendevano e sulla legge dei grandi numeri contava in modo estremamente cinico e crudele il bilancio sanitario mondiale. Io avevo deciso di farne a meno per due motivi. Intanto non mi fidavo della durata dichiarata del Viaggio e quindi ero sicura che ne sarei rimasta comunque priva nel suo corso e, soprattutto, vedevo di buon occhio qualunque cosa che potesse accelerare la mia dipartita. Non partivo per cercare una speranza di vita, ma una certezza di morte tranquilla, serena e senza coinvolgimenti emotivi altrui. Come dire…un lungo momento di riflessione con me stessa e poi la possibilità di decidere di morire in qualsiasi momento avessi voluto.
Le possibilità erano ampie e le avevo esaminate tutte. Di vecchiaia, di malattia senza cure, con un suicidio “violento” (mi ero portata dietro corde, coltelli e pistola), smettendo di mangiare, uscendo dalla navetta e vagando nello spazio o, infine, per le conseguenze di una crisi epilettica. L’ultima mi pareva la morte preferibile. La suprema resa alla mia malattia per un certo verso, ma anche lo sfruttamento finalmente della stessa, in una sorta di rivincita finale. Era quella che sognavo, quella che bramavo. Il motivo per cui non avevo interrotto gradualmente la terapia sulla Terra, ma mi ero portata dietro il numero sufficiente di medicine per tirare avanti un mese e poi interromperle di botto, situazione che mi avrebbe causato una o più crisi certamente. Non vedevo l’ora. Ci sarà senz’altro chi dirà che la mia volontà di suicidarmi non costituisca la parte più importante delle mie motivazioni. Il perché. Quella è la domanda da porre, semmai. Secondo alcuni almeno. Anche no, mi verrebbe da rispondere. E se foste voi coloro che dovrebbero porsi la domanda? Chiedervi magari perché non suicidarsi? Perché non porre dignitosamente fine alla propria vita invece di subire questa tortura e questo imbroglio che l’ordinamento mondiale ci stanno imponendo? Non capite che non ha senso cercare di aggrapparsi a questa falsa speranza? Ma questa sarebbe la mia risposta polemica e filosofica. Il mio non è e non sarà un suicidio etico, un suicidio morale. Sarà un suicidio banale. Uno come quelli che avvenivano quando ero giovane io. Uno come quello che desideravo io da quando ero giovane. Un banale desiderio di interrompere la propria sofferenza interiore. Condito nel mio caso da tanta vigliaccheria, perché non ero riuscita a farlo quando avrebbe avuto un senso, quando mi avrebbe risparmiato almeno qualche decennio di sofferenze, ma avevo aspettato di finire la mia vita o quasi.
Certo, da ventenne non avrei immaginato che le aspettative di vita sarebbero cambiate così bruscamente. Si parlava di vita che si allungava. Di popolazione più anziana e sempre meno nati. Qualche forza politica diceva, parlando ognuna alla propria gente, contrapponendola alle ALTRE nazioni brutte e cattive, che bisognava ricominciare a fare figli e vagheggiavano di incentivi alle nascite. Ma ovviamente nessuno aveva parlato di come collocare i nuovi nati rispetto ad un mondo già sovraffollato. E pagare le pensioni era un altro problema delle finanze di quasi tutti gli stati. Le stesse forze politiche che parlavano di incentivi per chi faceva figli, imponevano a forza la loro idea di abbassare le tasse. Ma anche qui avevano taciuto che i fondi li avrebbero trovati nella riduzione dell’assistenza sanitaria e nella quasi sparizione delle pensioni. “Casualmente” aumentarono invece le spese per le ricerche spaziali, considerate una bizzarria dei nuovi ordini statali, in una sorta di riedizione delle sfide della guerra fredda per conquistare per primi lo spazio. Noi, ciechi per la maggior parte, non avevamo visto il disegno globale. Ed ecco che io, che avevo pensato che in qualsiasi momento mi fossi suicidata mi sarei comunque risparmiata anni di sofferenza, mi sono accorta di essere ormai senza scelta. Questo mi rodeva da matti, l’essermi sbagliata, vedere che quella possibilità mi era stata in un certo senso tolta. Avevo deciso che avrei mandato al diavolo la loro finta speranza.
Ed eccomi qui. Pronta a morire. Mi godo il momento e l’attesa. Domani sospenderò le medicine e aspetterò che arrivino le crisi. Nel peggiore (o migliore) dei casi, non mi uccideranno, ma mi daranno incoscienza. Guardo con pigrizia alla marijuana che ho qui con me. Lo Stato me l’ha fornita, così come la fornisce a tutti coloro che iniziano il Viaggio. Curioso che ipocritamente di facciata la condannino e cerchino di non legalizzarla e la forniscano invece a balle intere a chi parte. In teoria potrei anche fare a meno delle medicine utilizzandola come terapia, così come era già stata prevista da molti stati, prima della Rivoluzione Sanitaria ovviamente. Penso che anche cannarmi di brutto non sarebbe male. L’unica cosa che non mancherà saranno le scorte di cibo e di acqua, previste come integratori tramite pillole e barrette con lunghissima scadenza ed apparecchi in grado di trasformare i liquidi corporei in un continuo processo di rigeneramento idrico. Proprio la presenza massiccia e apparentemente spropositata di materiale nutritivo, aveva fatto dubitare molti di noi sulla reale durata del Viaggio. In un modo strano e forse perverso, ipocrita pensavo io, pareva che si volesse evitare di farci morire di fame. Mai sia che ci fosse un’eutanasia. Era meglio far morire di vecchiaia o di malattia senza cura, ma senza alcun peso sulla coscienza. Non me. Non avrete me così.
Io morirò perché non ce la faccio più a resistere, ma questo sarà uno schiaffo anche a voi. Spero che vi arrivi forte e chiaro. Prima di partire mi ero organizzata e avevo appreso alcune tecniche per hackerare il sistema informatico della navicella. Chi me l’aveva insegnate era stato entusiasta della motivazione: far apparire sui touch screen di tutti gli apparati elettronici del mondo, la Verità. Un messaggio breve, ma che avrebbe chiarito sia l’inconsistenza della speranza che fornivano ai futuri viaggiatori per farli star buoni sia la mia volontà di suicidarmi. Fermatemi stronzi. Un momento di soddisfazione ed un sorriso. Mi sa che lo festeggio con una canna, anche se…anche se potrebbe aumentare l’effetto dei medicinali e quindi attenuare quello della loro sospensione da domani. Voglio resistere.
Mi levo questi occhiali protettivi che non ho ancora capito perché indosso e mi avvicino all’oblò che mi fa vedere la Terra dalla quale mi sto allontanando. È magica vista da qui, ma mi accorgo di non provare una nostalgia particolare. Forse perché non mi sono mai sentita a posto laggiù. Forse perché la mia speranza di riuscire a farcela, a fare dei conti con me che tornassero, si è infranta quando ho sbattuto la faccia contro l’ennesimo muro… Dunque mi sento di ammirarla come qualcosa di oggettivamente bello e di oggettivamente malato. Non guardo neanche avanti, quel futuro non mi appartiene. Forse, dopotutto, una cannetta me la farò.