Si guardava intorno.
Non era facile vedere oltre quella nebbia, soprattutto se la nebbia si trovava dentro di lei. Tuttavia spalancava gli occhi, guardava, illudendosi di scorgere all’improvviso con chiarezza ciò che la spaventava. Eppure parte di quella nebbia aveva volontariamente provato a procurarsela per non sentire più il suo dolore. Farmaci, alcol…pure un po’ di marijuana… C’aveva provato, o quello o il dolore. Ebbene, quei tentativi si erano rivelati miseri. Nessun vero ottundimento, ma neanche la chiarezza sciamanica derivata da una coscienza alterata.
La vera nebbia era quella dei ricordi, più che della ragione. Una nebbia nella quale sembrava affogare, strana, umida, che lasciava un sapore nella bocca…come di…cercava di capirlo per poterlo descrivere. Non sapeva neanche bene perché, ma nella sua vita sentiva che era importante saper descrivere le sensazioni, probabilmente era un tentativo di portarle ad un grado di oggettività, qualcosa che altri potessero valutare e misurare per non farla sentire totalmente pazza.
Lei non si sentiva pazza, in realtà, non nel senso comune e forse semplicistico del termine, non aveva deficit cognitivi, per capirci, ma doveva ammettere che c’era in lei qualcosa che non andava. Una questione di tempi, forse. Sulle cose arrivava sempre un attimo prima o un attimo dopo, mai insieme agli altri. Molto rapida nei ragionamenti e spesso anche nelle conclusioni quando si trattava di nozioni, ma spesso impedita nelle riflessioni se si trattava di sciogliere nodi emotivi. Alcuni rimanevano lì, belli fermi ed anzi…si erano rafforzati negli anni, perché per affrontarli lei li aveva tirati, aumentando la forza di quella corda immaginaria di trattenere, vincolare e legare, ovviamente.
Tornò a considerare la nebbia.
Quella che era assassina in molti thriller e comunque spaventosa per la maggior parte delle persone, in qualche modo ora la stava confortando, forse per la sua stessa presenza, mai messa in discussione e…fedele in un certo senso. Dopotutto, lei non vedeva oltre, ma sapeva che ciò che la spaventava c’era. E qualche idea se l’era fatta, quindi aveva comunque delle ipotesi.
Ipotizzare…la sua mente non faceva altro in certi momenti. Quella maledetta mente che non riusciva a fermarsi mai. Mai. Né nel dolore, né nel piacere. Neanche nei maledetti momenti nei quali si prevede che non si debba pensare. Già che in sé li definiva maledetti, ripetendo l’aggettivo attribuito alla mente, la diceva lunga. Maledetti perché non completi, maledetti perché voleva staccare almeno in quelle occasioni. Mente e nebbia onnipresenti. La mente che cercava di sconfiggerla, la nebbia che vinceva a mani basse e che voleva spiegarle che, dopotutto, avrebbe dovuto rassegnarsi e benedirla. Sì, benedirla. Perché una testa piena di nebbia, almeno non soffre sempre. Ma, si chiedeva lei, come fa poi a vivere nel mondo? Già non era normale, già si vedeva che non era normale, come avrebbe fatto con quella sua espressione annebbiata a non avere gli sguardi perplessi delle persone con le quali, volente o nolente, sarebbe entrata in relazione?
“Rassegnati”, le diceva la mente. “Non sei normale. No, non ti spaventare dalla definizione. Non sei nella norma, così va meglio? Hai…attenta, non lo dico per denigrarti, una malattia mentale… Di che tipo vorresti sapere? E a cosa ti aiuta una definizione, una diagnosi? E poi io sono la TUA mente e ne so quanto te di termini medico psichiatrici…quindi calma… Consolati, non sei certo sola, ma almeno sei tra quella minoranza che ne è consapevole. Ti consola? Fai di no con la testa? Ma cosa vorresti di più, non volevi diradare la nebbia e sapere? Ecco, ora sai perché c’è la nebbia, almeno”.
Bel colloquio, bella mente. Non le difettava certo la capacità di ragionare anche in modo crudo con sé stessa. Pure troppo crudo alle volte, ma comunque… Sapere di avere qualcosa che non andava, non le impediva di aspirare ad altro. A delle relazioni, per esempio. A dei rapporti dove lei non dovesse convincere gli altri che non stava bene nei momenti nei quali tutto filava liscio e che era sull’orlo della follia nei momenti nei quali effettivamente lo era. Sempre era costretta a spiegare agli altri la sua interiorità. Se li voleva vicino, ovviamente. Perché non era capace di fingere troppo a lungo di essere normale. Non le riusciva, non era tra i suoi talenti. Forse avrebbe dovuto impegnare in quello le sue energie, invece che cercare di corteggiare e conquistare le persone che amava. Anche perché poi, dopo la conquista, arrivava ovviamente il momento del riscontro e lei sapeva che lì sarebbe rumorosamente inciampata. “Non sono normale”, si disse. “Devo rassegnarmi a stare sola, ad avere pochi affetti vicino e a non essere compresa ed aiutata al 100% neanche da quelli. Poveri, non è colpa loro. Fanno il possibile, almeno loro. Forse anche più di me. Sono io che sono inaiutabile. Io”.
Da questi contraddittori dialoghi le veniva quel rapporto così strano con la nebbia. Cercata e temuta, disprezzata e auspicata, la nebbia non poteva essere qualcosa di alieno per lei. Un’amica forse no, ma certo una conoscente nel senso letterale della parola: quell’umido ed avvolgente sudario la conosceva infatti e per questo la invadeva senza trovare difficoltà ad espandersi in tutti gli angoli. La nebbia, dopotutto, era con lei da anni e sarebbe stato scortese giudicarla sempre e soltanto per le sue indubbie capacità di confondere. Una confusione umida e un po’ stucchevole…ecco che le si precisava il…gusto. Ma stucchevole non è un gusto, no? Di sicuro però quella era la sensazione che le lasciava quello strano, ambiguo, amichevole biancore.